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Dopo due settimane di accenni e commenti che hanno scosso allegramente i mercati, Theresa May ha finalmente delineato oggi la propria visione per il Regno Unito dopo la Brexit.

In un discorso di circa 30 minuti, il primo ministro britannico, sotto lo slogan di un Regno Unito “più forte, più giusto e più globale”, ha nutrito la platea di una serie di annunci dal sapore quanto mai vago e contraddittorio, volti a rendere meno amara la pillola: sarà “hard Brexit.”

L’unico annuncio, sostanzialmente, sta nella ferma decisione di uscire dal Mercato Unico, che rimetterà nelle mani di Downing Street le scelte in materia di accordi commerciali con terze parti, immigrazione e tutti gli aspetti normativi fino ad ora di competenza dell’Unione Europea.

theresa_may_uk_home_office_croppedUn’uscita che comporta costi ingenti, come abbondantemente spiegato da analisti politici ed economisti, per una volta (quasi) tutti d’accordo su un fatto: nel medio e lungo periodo sia Londra che Bruxelles subiranno notevoli perdite economiche per via di una riduzione nei flussi commerciali di beni e servizi, non solo nei mercati dei beni finali ma anche di quelli intermedi, per via dell’introduzione di tariffe nelle supply chain di dimensione europea. I paesi più esposti dopo il Regno Unito: l’Irlanda e la Germania.

Ma nel discorso di Theresa May queste preoccupazioni non sembrano emergere. La premier infatti si è espressa favorevole a un negoziato che entro due anni dall’appello al famigerato articolo 50 porti a un ambizioso accordo bilaterale di libero scambio con Bruxelles, in modo da evitare pericolosi cliff–edge per il mondo del business internazionale, con tanto di un periodo transitorio di phase–in che riduca gli shock attesi.

Ciò che May accuratamente omette nel suo discorso è che questa proposta è basata su una sequela di assurdità.

Il caso più vicino di accordo bilaterale che coinvolge l’Unione Europea è quello con la Svizzera, negoziato in più round, ciascuno dei quali ha richiesto non meno di cinque anni tra inizio dei negoziati e implementazione. L’orizzonte dei due anni suona quanto meno irrealistico.

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Il secondo aspetto critico è che allo scadere dei due anni, il Regno Unito non avrebbe più diritto a trattamento di favore secondo lo statuto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che vieta di applicare favoritismi nei confronti dei partner commerciali con cui non è in vigore un trattato di libero scambio. Trattare il Regno Unito ad interim come se fosse ancora parte del Mercato Unico non sarebbe dunque legalmente possibile, per quanto si stia cercando un escamotage politico per aggirare il problema.

In tema di servizi finanziari, le aziende della City perderebbero di colpo i passporting rights, che consentono alle banche londinesi di operare nel mercato europeo. Un sistema di equivalenze sarebbe oggetto di trattative che necessitano tempo e costi difficili da sostenere per chi opera in un settore così sensibile agli shock di breve periodo.

Un’ulteriore questione trascurata nel discorso è che l’armonizzazione con le regolamentazioni europee (in termini di immigrazione, energia, ecc.) e il contributo fiscale al budget comunitario sono le due condizioni, insieme al rispetto delle quattro libertà fondamentali, per accedere al Mercato Unico. Un accordo di libero scambio che si voglia camuffare per qualcosa di differente, ma che nella sostanza vorrebbe essere basato sull’assenza totale di tariffe, è una soluzione politica inaccettabile per Bruxelles. Una posizione di comodo, chiamata in gergo cherry picking, che non può essere avallata: a rischio la tenuta della stessa Unione, che potrebbe disgregarsi sotto le spinte centrifughe dei Paesi che vogliono rinegoziare un rapporto più vantaggioso, con pari benefici e meno obblighi

Contemporaneamente, May ha solo tangenzialmente toccato il problema dell’immigrazione dall’Unione Europea. May ha intavolato il discorso sostenendo fermamente che controllare l’immigrazione automaticamente conduca a stipendi più alti per lavori non specializzati — una nozione che spesso rimbalza in ambienti conservatori, ma di cui nessuno riesce mai a produrre uno straccio di prova. Durante il Q&A, la premier ha ripetuto più volte che i “best and brightest” sarebbero stati accolti dal Regno Unito, secondo i propri criteri e bisogni. Resta da capire quale sarà il livello di accesso garantito ai lavoratori poco qualificati, che negli ultimi decenni hanno sostenuto le finanze pubbliche con un contributo netto positivo e hanno alimentato la produttività del sistema economico nel suo complesso.

Resta allarmante l’interpretazione che questo governo dà del voto pro leave:

A little over six months ago the British people voted for change. They voted to shape a brighter future for our country. They voted to leave the European Union and embrace the world.

Poco più di sei mesi fa i cittadini britannici hanno votato per il cambiamento. Hanno votato per costruire un futuro più brillante per il nostro paese. Hanno votato per lasciare l’Unione Europea e unirsi al resto del mondo.

Una letteratura sempre più estesa guarda all’avversione nei confronti della globalizzazione come alla determinante più importante del voto pro Leave. Ora che Londra intraprende la strada verso una posizione di isolamento, l’unico modo per sostenere una posizione di leader globale e non sprofondare nella recessione è appunto fare più accordi di libero scambio, “abbracciare” ulteriore globalizzazione. Chissà se e quando i cittadini britannici se ne accorgeranno, come la prenderanno.

Il resto dei temi toccati suona più come un bandolo di buone intenzioni che come un vero e proprio manifesto politico. Tra gli annunci più cheesy, risuona quello destinato ad alimentare nuovi esilaranti meme a sfondo politico: la volontà di rimanere con l’Unione Europea “best friends.” Forever?