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Dopo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 23 dicembre, come cambia il ruolo della Comunità internazionale nella questione israelo-palestinese?


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L’ultimo periodo dell’anno è, da qualche tempo, un momento cruciale per la questione israelo-palestinese nel contesto internazionale. L’ONU cerca regolarmente di risvegliare l’attenzione della comunità internazionale sulla situazione dei territori palestinesi occupati da Israele, con lo scopo di portare a uno sblocco della condizione di continuativa tensione e conflitto.

La Risoluzione 2334 (2016) — adottata il 23 dicembre scorso con 14 voti favorevoli su 15 e la straordinaria astensione degli Stati Uniti — è solo l’ultimo tassello di una storia che va avanti fin dallo scoppio della guerra arabo-israeliana del 1948: la comunità internazionale è intervenuta spesso per mezzo di risoluzioni — approvate dall’Assemblea Generale ma soprattutto dal Consiglio di Sicurezza — con lo scopo di proporre soluzioni diplomatiche a quello che sarebbe diventato il più lungo conflitto della storia contemporanea, ma tutte le misure prese nel contesto internazionale, non avendo valore vincolante, non hanno sortito risultati concreti, in quanto non hanno mai riscontrato l’approvazione delle due parti al conflitto.

In un certo senso, le uniche azioni diplomatiche a fare eccezione sono stati gli Accordi di Oslo del 1993-1995.

Questi hanno ottenuto solo parzialmente i risultati che si erano proposti, come il reciproco riconoscimento tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP — unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese in seno alle Nazioni Unite) e lo Stato di Israele, o la definizione delle progressive fasi di ritiro dell’autorità israeliana da una parte dei territori occupati, tra cui la striscia di Gaza, con lo scopo di portare poi all’istituzione di un’entità statale palestinese, o ancora l’istituzione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese — organo di autogoverno dei territori occupati). Le questioni più annose relative alla definizione dei confini territoriali, allo status di Gerusalemme e alla gestione dei profughi palestinesi sono rimaste comunque irrisolte e questo ha portato a un definitivo fallimento degli accordi di pace.

In seguito, dunque, le forze diplomatiche internazionali hanno modificato il loro approccio: dato che i ripetuti moniti alla cessazione dell’uso della forza, al ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati palestinesi, alla necessità di porre fine all’attività di insediamento nei territori palestinesi da parte di Israele, a non modificare i confini definiti il 4 giugno 1967, non venivano rispettati dalle parti in causa, si è cominciato ad intervenire sullo status giuridico dell’entità palestinese a livello internazionale, per garantirle la futura possibilità di confrontarsi col proprio avversario israeliano almeno da un punto di vista di parità giuridica, con lo scopo di garantire al popolo palestinese il diritto — molto caro alle Nazioni Unite — all’autodeterminazione.

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La sede dell’UNESCO a Parigi

Il 29 ottobre 2011, l’UNESCO ha accettato la richiesta di adesione come Stato membro presentata dall’OLP, e questo passo ha permesso all’ONU di far evolvere la posizione dell’OLP da osservatore dei lavori dell’Assemblea Generale a Stato osservatore non-membro. Il riconoscimento dell’UNESCO non ha modificato lo status giuridico internazionale della Palestina, che non è ancora identificabile come uno Stato ai sensi del Diritto Internazionale, e questo è confermato dal fatto che l’ONU non ha potuto promuovere la Palestina a Stato membro ma solo a Stato osservatore non-membro. Tuttavia, questi sviluppi hanno innescato una serie di azioni diplomatiche da parte dell’OLP, che ha deciso di aderire a una serie di trattati multilaterali e di Diritto Internazionale Umanitario a tutela del popolo palestinese.

Infine, come ulteriore passo in avanti, il 1° aprile 2015 è stata accettata la richiesta di adesione presentata dall’OLP alla Corte Penale Internazionale, per indagare sugli eventuali crimini internazionali gravi commessi da Israele in territorio palestinese o contro i cittadini palestinesi, e la responsabilità penale dei loro autori individuali.

Il progresso che ha avuto luogo nell’apparato istituzionale dell’entità politica palestinese in seno alle istituzioni internazionali ha fatto avanzare lo status della Palestina, se non ancora alla condizione di Stato vero e proprio da un punto di vista de iure, almeno da un punto di vista de facto. Questo ha avuto come conseguenza diretta la crescente attenzione di un sempre maggior numero di Stati alla questione dell’illegalità degli insediamenti israeliani nei territori palestinesi e al fatto che l’occupazione israeliana sia il maggior ostacolo al raggiungimento dello status di Stato secondo il Diritto Internazionale da parte della Palestina. A tal proposito è emersa la necessità di riaffermare questi principi nell’ultima risoluzione approvata grazie all’inaspettata astensione degli Stati Uniti d’America.

Le dinamiche che da sempre caratterizzano il Consiglio di Sicurezza hanno visto lo schieramento dei paesi arabo-musulmani a sostegno del popolo palestinese, mentre gli Stati Uniti come solido sostenitore di Israele, tanto da imporre il proprio gioco di forza attraverso il veto nel momento in cui le risoluzioni proposte dal Consiglio decretassero l’illegalità degli insediamenti israeliani nei territori occupati.

Il cambio di direzione marca l’intenzione del presidente uscente Obama di dare un’impronta differente al concetto di pace in Medio Oriente, rispetto a quella portata avanti finora e, soprattutto, rispetto a quella che prospetta di mettere in campo il futuro presidente Trump. La risoluzione non fa riferimento ad alcuna sanzione per Israele ma pone le basi per future sanzioni dovute all’illegalità della condotta di Tel Aviv, sia nella sua attività di occupazione sia in quella di colonizzazione dei territori palestinesi. È questo ciò che spaventa maggiormente il Primo Ministro Netanyahu. Dall’inizio del 2016 l’Assemblea Generale ha adottato 18 risoluzioni, senza contare quelle adottate dal Consiglio dei Diritti Umani, nelle quali Israele è stato sempre condannato.

La bozza della risoluzione dello scorso 23 dicembre è stata presentata in origine dall’Egitto, che poi ha fatto un passo indietro in seguito a pressioni del presidente eletto Trump. Il testo della risoluzione, quindi, è stato ripreso da una delegazione di 4 membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, ai quali entro fine anno sarebbe scaduto il mandato all’interno del Consiglio — Nuova Zelanda, Malesia, Senegal e Venezuela — e a sostegno della propria iniziativa hanno ribadito che il recente tentativo di legalizzare gli insediamenti nei territori palestinesi ha reso impellente la necessità di questa risoluzione; che negli ultimi 8 anni nessuna risoluzione a favore di una pace duratura in Medio Oriente è stata adottata; che Israeliani e Palestinesi hanno il diritto di vivere in sicurezza all’interno dei confini tracciati fin dal 1967.

Samantha Power parla a Ginevra
Samantha Power parla a Ginevra

Secondo l’ambasciatrice Americana Samantha Power il repentino incremento degli insediamenti illegittimi ha indotto gli Stati Uniti ad astenersi dalla votazione, in quanto l’ostinazione delle politiche di Israele in termini di insediamenti rappresenterebbe un pericolo per la sicurezza stessa di Israele, oltre che il principale ostacolo al raggiungimento della “Soluzione dei due Stati” che anche gli Stati Uniti sostengono.

La risoluzione è stata applaudita dalla maggior parte dei presenti alla discussione come un importante segno della fine dell’inattività e del letargo del Consiglio di Sicurezza e come il primo concreto segno di impegno verso la realizzazione della soluzione dei due Stati che la maggior parte della comunità internazionale considera il solo e unico mezzo per giungere alla pace in Medio Oriente.

La Francia, sulla scia di questo momento di apertura al dialogo internazionale, si è proposta di organizzare a breve una conferenza internazionale a Parigi, che rilanci il processo di negoziazione sulla soluzione dei due Stati, la quale si terrà probabilmente il 15 gennaio, in ogni caso prima dell’insediamento della nuova amministrazione Trump, anche se al momento Israele ha chiuso ogni contatto con l’attuale amministrazione americana, proprio a causa del mancato veto alla risoluzione.