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Il capo di un sindacato egiziano ha ammesso di aver segnalato Regeni alle autorità, ma rimbalza la responsabilità della sua morte su “chi l’ha mandato” in Egitto


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Ieri mercoledì 28 dicembre, sull’edizione araba dell’Huffington Post è stata pubblicata un’intervista a Mohamed Abdallah, leader del sindacato dei venditori di strada egiziano, nella quale Abdallah ammette di aver, in qualche misura, denunciato Regeni al Ministro degli Interni del paese. (Qui potete leggere la traduzione in italiano, edita dall’Espresso)

La notizia ha riportato sui giornali di tutto il paese gli intrighi delle vicende che hanno seguito l’omicidio di Giulio Regeni. L’operazione sembra rientrare nella vasta ma goffa rete di disinformazione che il governo del Cairo sta cercando da mesi di ricamare per coprire la verità sull’omicidio di Giulio Regeni: dall’incidente stradale, alla teoria omosessuale, ai rapinatori, le ultime “rivelazioni” di Abdallah sembrano la tacita ammissione che la ricostruzione “giornalistica,” che vuole Regeni colpito a causa delle sue indagini giuslavoriste sulla situazione sindacale al Cairo, non solo sia affidabile ma forse innegabile.

Abdallah prosegue invece con l’ennesima accusa alla memoria del giovane, sostenendo che il ricercatore stesse evidentemente svolgendo attività di spionaggio, ma maldestramente — una volta partita la segnalazione agli Interni, secondo la testimonianza, Regeni sarebbe stato certamente “ucciso dai suoi.”

Malgrado il supporto occasionale, in particolare la risoluzione del Parlamento europeo e la condanna del New York Times di fronte al comodo, e lautamente ricompensato, silenzio francese in materia, è evidente che la comunità internazionale ha pragmaticamente deciso di lasciare l’Italia sola su questo fronte, e ogni tentazione di reagire in maniera muscolare, ancora oggi, resta una pessima idea.

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È così che, tra un tentativo di insabbiamento e l’altro, i rapporti tra Italia e Egitto si fanno sempre piú complessi — l’Egitto ha piú volte dichiarato di offrire la massima collaborazione e il massimo accesso agli inquirenti italiani, solo poi per ripetutamente cercare di inquinare le indagini. L’Italia, dall’altra parte, deve costantemente ricordare di essere “amica dell’Egitto.” La tesi di Roma è infatti una versione smorzata della ricostruzione giornalistica: la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni sono per forza stati organizzati da un’agenzia statale — ma certo, non dubitiamo, completamente all’oscuro di al–Sisi.

I rapporti dell’Egitto restano distesi con il resto dell’Occidente, in particolare appunto con la Francia, che ha volentieri approfittato del raffreddamento dei rapporti con l’Italia — l’Egitto è una delle fortunate dittature che abbiamo scelto come non solo tollerabili, ma a conti fatti, gradite. Questo ignorando le centinaia di persone fatte sparire, che hanno tenuto compagnia nel corso dell’anno a Regeni. Secondo un report dell’Espresso, in Egitto le sparizioni politiche sarebbero circa tre al giorno, alcune durano mesi, altre vengono poi sommariamente archiviate una volta che i corpi delle vittime vengono trovati giustiziati sulle strade. È la cultura ultraviolenta del governo, che ha già una volta provato ad annegare nel sangue la vicenda di Regeni — quando uccise tutti e cinque i sospettati del rapimento del giovane, chiare teste di legno, e arrestandone tutti i prossimi familiari, in una serie di blitz di emergenza, rendendosi conto solo in corso d’opera che le proprie costruzioni non stessero in piedi.

Non è chiaro in che misura l’Huffington Post sia coinvolto in questa specifica boutade — ma la pubblicazione dell’intervista cade solo due giorni dopo l’annuncio di nuove misure che ridurranno drasticamente la libertà della stampa nel paese, istituendo un “Concilio Supremo per l’Amministrazione dei Media” che permetterà, di fatto, allo stato di controllare qualsiasi media outlet.