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Lunedì sera due fatti di sangue hanno scosso di nuovo l’Europa, per l’ennesima volta in un anno che ha visto crescere la tensione giorno dopo giorno.


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Se dell’omicidio dell’ambasciatore russo in Turchia Andrei Karlov conosciamo con certezza la causa — una vendetta per la guerra scatenata da Putin insieme ad Assad sui ribelli siriani — non è ancora del tutto chiaro il profilo dell’attentatore di Berlino: la polizia tedesca aveva arrestato un rifugiato pakistano, che è poi stato rilasciato perché innocente. Lo Stato Islamico ha rivendicato che l’autore dell’attentato sia un “loro soldato,” rivendicando responsabilità ma non il mandato, come avevano fatto per la strage al club di Orlando. Ma non importa: per la politica si tratta di un attentato terroristico — e lo è, anche se, senza un mandante… — e la stampa ha potuto farsi il suo giorno e mezzo di giro di corsa a sparlare dell’accoglienza e dei rifugiati.

Contemporaneamente, a Zurigo, un uomo entra armato in una moschea e ferisce tre uomini prima di essere fermato. Secondo la stampa “non è chiaro il movente.” Beato lui, a cui il movente potrà essere chiesto: a differenza del poliziotto turco che ha assassinato l’ambasciatore russo, terminato sul posto.

Il punto però è un altro, ed è questo: prima o poi dovremo iniziare, non solo come Unione Europea, ma come Occidente (o, mondo?), a discutere di due fondamentali elementi che rendono possibili questi atti di violenza: la religione e la circolazione delle persone.

L’ondata migratoria è appena iniziata, grazie alla distruzione totale o all’impoverimento programmatico di parti importanti del mondo: non si può pensare di continuare a chiamarla emergenza e poi andare avanti a colpi di leggine più o meno razziste. Bisogna fare qualcosa, e quando bisogna, raramente la politica reagisce bene.

I populisti, quelli di cui vi parlavamo qualche giorno fa, hanno sempre le soluzioni piú facili — il problema non è la religione, ma l’islam e le persone che lo praticano. Va quindi contrastata una cultura, e fermate all’ingresso le persone che la praticano.

Sarebbe facile citare il caso dell’uomo di Zurigo come contraltare, ma in un certo modo anche questo equivarrebbe a un atto di populismo. Partiamo allora da un presupposto diverso: religione, come fattore e come diritto, e circolazione, libera, controllata o bloccata. Esaminiamo questi elementi concentrandoci su fattori più quantificabili della religione — che moschee e chiese, possono essere diverse quanto vogliono, ma tutte hanno le cupole, alla fine — il potere, o per usare un altro termine, il capitale.

Un fondamentalista alla Casa bianca

Gli otto anni di Obama alla Casa Bianca, osservati da un’Europa che stava attraversando una devastante crisi economica, ma ancora retta da una classe politica relativamente stabile, raccontavano un Occidente molto diverso da quello di oggi: un Occidente in cui le battaglie che in Italia chiamiamo della sinistra radicale erano finalmente considerate vittorie per il bene di tutta la società. Dall’aborto ai primi passi per i diritti delle coppie LGBTQ, passando per il divorzio, ci si sentiva su una strada che andava in una sola direzione, verso il progresso.

Su quegli stessi binari, molto piú lentamente, progrediva l’interazione culturale — l’integrazione, quella che oggi è quasi pretesa con la forza, era data per scontata. Si lavorava per una società cosmopolita, e l’intero linguaggio di Barack Obama è cambiato, tra il 2012 e il 2013, proprio per riconoscere questa vocazione.

Poi sono cambiate le cose. Anni dopo anni di crisi hanno infiammato la retorica della destra in tutto il mondo, e trascinato verso posizioni avversarie al cittadino anche i partiti di sinistra. Si sono smontati i diritti dei lavoratori, premessa senza la quale gli altri diritti che riconosciamo oggi parte della società civile sono quasi privi di valore.

Se ne parla ormai da più di dieci anni, a più riprese — il multiculturalismo sarebbe morto, ci viene detto. Importante evangelista di questa fede ancor meno basata sulla realtà di quelle con le persone con ali pennute, era Thilo Sarrazin, autore diLa Germania si distrugge da sola, libro che gli è costato la poltrona alla Bundesbank. Sarrazin aveva anche convinto Merkel, che già all’epoca sosteneva che per lavorare in Germania gli immigrati avrebbero dovuto “adottare la cultura e i valori tedeschi.” Che nessun baluardo di questa pretesa non veda come sia esattamente lo stesso tipo di posizione che criticano fino a strapparsi i capelli riguardo i paesi arabi è davvero sconvolgente. C’è un detto a riguardo.

Adesso, Trump. O meglio, i repubblicani. Mascherata da legge sulla libertà di religione, i repubblicani potrebbero permettere ad aziende e società di discriminare cittadini in base al loro credo, alla loro etnia, o al loro orientamento sessuale.  In nome quindi della libertà di religione, si agisce in modo da “privatizzare la discriminazione,” lasciando a cittadini bigotti il ruolo che lo stato non può piú coprire.

Si potrebbe dire che la possibilità di esercitare discriminazione viene riconosciuta solo a chi ha un’attività — e non ai lavoratori dipendenti.

Funziona così: ogni azienda può rivendicare di gestire il proprio spazio privato, secondo la fede dei suoi proprietari. Limitare i diritti delle donne incinte, magari non sposate? OK. Rifiutare di servire musulmani o omosessuali? OK. Licenziare per questioni filosofiche? Assolutamente OK. Si crea così l’infrastruttura per segregare senza che lo stato debba imporre leggi troppo aggressive: è sufficiente lasciar fare a imprenditori bigotti, e offrire loro gli strumenti per discriminare.

Da questo punto di vista, decisioni come l’albo dei musulmani o la messa al bando dei musulmani stessi hanno solo senso: se si accetta la libertà di discriminare, l’unico modo per renderla legittima è la codifica statale. Così, a livello legale è possibile bloccare leggi locali contro la discriminazione, come è successo in Arkansas e Tennessee.

Se dal nostro punto di vista questo può essere definito a tutti gli effetti fondamentalismo istituzionale, bisogna per forza analizzare il fondamento da cui parte l’attacco ai diritti da parte delle destre: che l’egualitarismo sia artefatto.

L’uguaglianza non esiste

In natura, e anche nella nostra società, l’uguaglianza non esiste — chi è benestante non solo può permettersi uno stile di vita diverso da chi appartiene a una famiglia di lavoratori, ma ha a tutti gli effetti possibilità diverse. Questo è un dato di fatto. Lo Stato interviene su queste diversità cercando di spianare, nei limiti del possibile politico, il campo da gioco: creando misure di welfare, progetti di inserimento, borse di studio, eccetera.

La crisi, lo scontro con l’islamismo, il fondamentalismo religioso mascherato da “difesa della cultura occidentale” mirano tutti a un solo obiettivo: dimostrare che l’uguaglianza non sia dovuta, ma sia essa stessa una posizione politica.

È inevitabile che la destra (un po’) più moderata, e anche la sinistra in condizioni particolarmente tremebonde, si facciano tentare da questa scorciatoia — è il sogno di ogni legislatore, poter individuare una causa su cui sia possibile operare in maniera chirurgica. Ma se si accetta che l’egualitarismo non è una parte ormai scontata del funzionamento della società contemporanea, dove ci si ferma? Ai voucher, o a dissolvere il sistema sanitario pubblico?

Dall’altra parte, è forse l’unica soluzione possibile alla deriva dell’odio — rivendicare l’egualitarismo.

E l’egualitarismo ci porta inevitabilmente alla madre di tutti i contenziosi, che si ripete ad ogni fatto di sangue — l’immigrazione.

Se accettiamo che l’egualitarismo sia il fondamento della società contemporanea è molto, molto difficile trovare una giustificazione non strettamente politica al labirinto che i migranti devono attraversare per ottenere permesso di soggiorno, un lavoro, per non dire la cittadinanza. Anche in un’ottica disillusa, figlia del mondo della sorveglianza di massa, è molto più sicuro avere confini aperti, dove si registri (e basta) chiunque voglia transitare —  invece di respingere, creare blocchi militarizzati, rimpatriare, garantendo così che i canali del traffico illegale di umani, assolutamente non sorvegliati, siano sempre in piena.

Se un cittadino cristiano francese può sostanzialmente andare ovunque vuole, perché non può farlo un musulmano afghano? La variabile dell’ingiustizia, insomma, è il nome del proprio dio, o il numero del proprio conto in banca? Questo è particolarmente valido all’interno dell’Unione Europea — ma lo spostamento delle persone da paesi del primo mondo ad altri paesi primo mondo, anche dove barriere e procedure più lunghe esistono, è ordini di magnitudine più semplice del muro virtualmente inscalabile che presentiamo a popoli meno fortunati.


Parlare di aprire i confini e di maggiori diritti per la minoranza musulmana è in questo momento, a dir poco, un suicidio politico. La strada a senso unico ha cambiato senso di marcia, e marcia spedita più lontano che può da una società cosmopolita. Con la spinta dalla retorica populista della destra e di sempre più partiti di sinistra, però, si dovrà tornare a parlare di integrazione culturale — non ha niente a che fare con la roba propinata oggi ai rifugiati — e ci sarà chi vorrà raccontare quel momento come una sconfitta. Sicuramente ci si sarebbe potuti arrivare da una strada molto meno cosparsa di sangue. Ma per quanto non piaccia ai carnefici occidentali, le minoranze esistono, e qualcosa bisogna fare. La soluzione è solo una — l’umanità, che non è un lusso, non è un merito, è solo decenza.

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.