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L’uomo dell’anno sarà pure Donald Trump, ma i protagonisti di questo 2016 politicamente turbolento, a ben guardare, sono stati i media.

Per tutte le grandi storie che hanno segnato gli ultimi mesi, il dibattito attorno a come sono state coperte e raccontate ha finito per equiparare — se non superare — il racconto di cosa è effettivamente successo, in una sorta di meta-meta-giornalismo. Come se poi, nell’anno consacrato alla bolla narrativa della post-fattualità, fosse ancora possibile dire che qualcosa accada effettivamente.

Dalla guerra civile siriana raccontata attraverso account Twitter dall’autenticità quasi mai verificabile, o tramite i report anonimi dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani — una rete di attivisti con base in Inghilterra, fonte di quasi tutti gli articoli sulla guerra in Siria che si leggono sulla stampa internazionale — e terreno di scontro di una propaganda incrociata che riflette le divisioni tra le fazioni in campo, fino alla doppia débacle liberal della Brexit e dell’elezione di Trump, che tanto hanno dato da pensare a sondaggisti, analisti politici, editorialisti — cosa abbiamo sbagliato, come abbiamo fatto non capire.

Fake news, bufale, bolle di filtraggio e improbabili suggerimenti per uscirne, populismi in crescita in tutta Europa, definizioni contrastanti di cosa sia il populismo stesso, litigi a chi ha più ragione degli altri, a chi riesce a leggere meglio la realtà, per accaparrarsi un pubblico sempre più smarrito: l’anno si chiude sui postumi di una psicosi collettiva del mondo dell’informazione, con la generale impressione che la situazione stia sfuggendo di mano. E quindi le reazioni di nostalgia: i bei tempi in cui i giornali erano i custodi dell’informazione, unici latori della verità ufficiale, mentre oggi nulla può invertire il processo di disintermediazione tra le persone e le cose.

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Dopo l’elezione di Trump, a quanto pare, gli abbonamenti digitali e le donazioni ai principali quotidiani online di lingua inglese hanno visto un’impennata — come se i cittadini americani (e non solo), presi da una sorta di senso di colpa per il risultato elettorale, volessero correre ai ripari, tornando a pagare per il troppo trascurato “giornalismo di qualità,” che ne ha approfittato per vendersi come l’antidoto alla malattia.

Tuttora, sui siti del Guardian, di Slate, del New York Times, compaiono banner del tipo: il giornalismo indipendente è necessario ora più che mai, a confermare un certo tipo di mitologia dell’eccezionalità di quest’epoca rispetto a qualsiasi altra della storia passata.

Ma come le false notizie, la propaganda e i meme, da soli, non bastano a vincere le elezioni, così il buon giornalismo non potrà mai essere sostitutivo della buona politica.

Al contrario, se l’antidoto a tutto questo malessere fossero meno notizie? Su The Awl è uscito ieri un racconto paradossale di Benjamin Hart, in cui l’autore immagina la propria vita nel 2017 — un anno dopo la vittoria di Trump — senza accesso a mezzi di informazione, in un embargo auto-imposto da tutto ciò che possa anche solo lontanamente riguardare la realtà presente.

Il racconto prende una piega inquietante à la Philip Dick, con soldati armati che girano per le strade e volantini lanciati dagli aerei che intimano ai cittadini di fuggire in un misto di inglese e mandarino, senza che il protagonista abbia la minima idea di cosa stia succedendo. Ma c’è qualcuno che prende molto seriamente l’idea di disintossicarsi dalle notizie — e non poteva mancare un dettagliatissimo WikiHow, secondo cui il primo passo da fare, ovviamente, è riconoscere i sintomi: se anche voi vi agitate facilmente, siete paranoici, non rispondete al telefono, andate nel panico e soffrite d’ansia, bene, fareste meglio a chiudere questo articolo e cercare aiuto.

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L’impressione di aver perso il controllo sulla realtà, e il panico che ne deriva, sono precisi indicatori di un’iper-esposizione mediatica che invece di fare chiarezza genera soltanto rumore e confusione — e guarda caso, i più a rischio contagio sono i consumatori di notizie professionisti, cioè quelli che poi scrivono gli editoriali su quanto la realtà sia fuori controllo, generando ulteriore dibattito e ronzio, profezie auto-avveranti e petizioni di principio. È una macchina che si auto-alimenta, e i suoi effetti negativi non si fanno sentire soltanto sulla salute mentale dei singoli.

Come ricorda Ryan Holiday sull’Observer, negli anni Novanta fu coniata l’espressione “CNN Effect” per indicare l’influenza che una copertura mediatica 24 ore su 24 avrebbe potuto avere sulle decisioni politiche degli attori globali — per dirla parafrasando Heisenberg, non si può raccontare un evento nel suo svolgimento senza influenzarne irrimediabilmente il corso.

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Il dibattito sulle conseguenze nefaste del consumo compulsivo di notizie, in effetti, non è nuovo: bisogna risalire almeno al classico Is Google Making Us Stupid? scritto da Nicholas Carr sull’Atlantic nel 2008. Lettura frettolosa, distratta da continui rimandi ipertestuali, sottoposta sempre a nuovi stimoli — e quindi de-sensibilizzazione, assuefazione, scarsa memoria — sono temi che riemergono in continuazione, quando si cerca di capire se internet, come medium, ha qualcosa di ontologicamente diverso dalle altre innovazioni tecnologiche dell’informazione, o se dovremmo trattarlo come la stampa a caratteri mobili o la macchina da scrivere.

Il 2016 ha visto l’esplosione queste contraddizioni: a una copertura minuziosa della realtà da parte della stampa ha finito per corrispondere una sempre minore capacità di capire. Non si tratta soltanto delle notizie false: una quantità impossibile da digerire di contenuti “veri” — che siano reportage originali, editoriali, lanci d’agenzia, interviste, analisi — è ugualmente dannosa, nella misura in cui ostacola il pensiero prospettico, ossia la facoltà di mettere in fila gli avvenimenti e trarne una narrazione coerente — non per forza vera, ma razionale. Tutto questo, sul News Feed di Facebook, nelle colonnine di Twitter, nei liveblog dei giornali o durante le maratone di Mentana non può accadere.

È l’incapacità di pensare in prospettiva che fa credere che la nostra epoca abbia qualcosa di radicalmente diverso dal resto della storia dell’uomo — ma è un’illusione. Allo stesso modo, tradisce un difetto di prospettiva l’idea che l’informazione 24 ore su 24, nonostante la sua invenzione recente, sia indispensabile per comprendere il mondo: gli indizi contrari, anzi, cominciano ad essere difficili da ignorare.