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In Italia risiedono circa quattro milioni di extracomunitari registrati, oltre a mezzo milione di irregolari. Nonostante quasi la metà di loro siano nel nostro Paese da più di cinque anni, nessuno ha il diritto di voto. La possibilità di andare alle urne, infatti, viene concessa dallo Stato solo a chi è in possesso della cittadinanza italiana, e gli extracomunitari possono richiederla solo dopo dieci anni di residenza ininterrotta sulla penisola. C’è qualche scorciatoia — chi ha un coniuge italiano, chi discende da qualcuno nato in Italia e emigrato nel secolo scorso, addirittura chi è originario di territori dell’ex Impero Austro-Ungarico può presentare una richiesta di cittadinanza al Ministero dell’Interno: ma non può la grande maggioranza di chi lavora nel nostro Paese da anni senza avere nonni nati nella penisola.


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Vista l’aria pesante degli ultimi mesi sull’argomento profughi, stranieri e rifugiati, nessun politico si è mai azzardato ad esporsi proponendo esplicitamente di far votare gli extracomunitari. Eppure è necessario farlo — e c’è chi l’aveva proposto già molti anni fa. Nel 1992, il Governo Italiano firmò la Convenzione di Strasburgo, che impegnava i Paesi dell’Unione “a concedere diritto di voto ed eleggibilità alle elezioni locali ad ogni residente straniero, a condizione che questi abbia risieduto legalmente nello Stato Ue nei cinque anni precedenti alle elezioni”. Secondo Linkiesta, nel 2012 il Parlamento avrebbe cominciato a pensare qualcosa di simile sul calco di una legge d’iniziativa popolare, legge che si è poi persa per strada — probabilmente, a nessun membro di nessun Governo è mai convenuto tirarla fuori dalla busta in cui è celata. Sempre secondo Linkiesta, alcuni comuni si sono mobilitati prima del Governo di Roma, ma con scarsi risultati.

La privazione del diritto di voto agli stranieri, che oggi rappresentano circa l’8% della popolazione italiana, genera un grande vuoto nella nostra democrazia.

Innanzitutto, togliendo la possibilità di esprimersi alle urne sulla vita politica del Paese a una fetta così importante di lavoratori dipendenti, l’intera classe sociale alla quale appartengono ha meno forza contrattuale. Secondo le statistiche, il 59% degli stranieri in Italia ha un impiego — la percentuale di disoccupati, grazie a fattori come l’età media più bassa, è inferiore a quella degli italiani. Non votando, non possono pretendere migliori condizioni di lavoro e migliori salari — almeno, non con mezzi democratici. Pensiamo al fenomeno del caporalato. Migliaia di stranieri vengono sfruttati nei campi, specie in Sud Italia: ma mentre i loro sfruttatori possono votare per far valere i propri interessi, loro — gli sfruttati — non possono farlo. Se venisse concessa anche a loro questa facoltà avrebbero un’arma e mezza in più per uscire dall’inferno di semischiavitù nel quale chi detiene il potere li tiene confinati.

Il caporalato è un caso limite, ma rende bene l’idea di come sarebbe possibile cambiare il mercato del lavoro, che oltre agli stranieri comprende anche gli italiani “purosangue”. Di un’espansione del diritto di voto gioverebbe anche chi risiede nella penisola da generazioni. In particolare, un maggior peso politico di una classe che oggi è composta soprattutto da piccoli e piccolissimi salariati potrebbe contribuire a far crescere il salario minimo, garantendo migliori condizioni di vita anche a chi risiede in Italia da qualche secolo e — soprattutto — fa comunque parte della stessa classe sociale di chi è appena arrivato. Se chi lavora non può esprimere il proprio malcontento, infatti, un datore di lavoro che intende risparmiare sui costi di manodopera sarà più teso ad assumere (leggi: sfruttare) lui piuttosto che su qualcuno che invece può lamentarsi, come gli italiani. Un miglioramento dei salari agli stranieri, raggiungibile con mezzi politici, si tradurrebbe infatti in un miglioramento dei salari per gli italiani. Ciò potrebbe contribuire anche ad allentare certe tensioni sociali in alcuni quartieri di periferia, dove il conflitto economico tra italiani e stranieri è molto alto, come nel caso del Giambellino — sarebbe senza dubbio meglio che inviarci l’esercito.

Oggi tutto questo non è possibile.

Nel nostro Paese si è creata una situazione tardo–ottocentesca, precedente all’introduzione del suffragio universale: c’è una classe sociale di privilegiati che votano in base al loro lignaggio e una classe di poveri considerata inadatta ad esprimere un parere. Perché prima che senegalesi, siriani, ucraini e ghanesi, questi individui sono soprattutto lavoratori — spesso sfruttati. Tutti gli italiani residenti all’estero invece possono votare — diritto sacrosanto, ma che spetterebbe anche a chi negli ultimi anni ha passato più tempo di loro in questo Paese. Purtroppo, si deduce che in Italia è più importante il proprio sangue che il proprio sudore: pur essendo “una Repubblica fondata sul lavoro,” al referendum costituzionale di oggi molti lavoratori non possono votare.