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In collaborazione con ASSP Milano,
di Ilaria Piromalli


Il 20 gennaio 1981, quando Ronald Reagan giurò come presidente degli Stati Uniti d’America, iniziò una nuova era. Aveva ottenuto il 50,8% dei voti popolari — era un attore, ma era già noto al mondo politico, avendo ricoperto il ruolo di governatore della California.

Tuttavia, nell’ambito di quelle elezioni, il fenomeno più curioso e interessante fu quello dei Democrats for Reagan, ossia un gruppo di sostenitori ed elettori del partito democratico che appoggiarono il candidato repubblicano, contro il democratico Jimmy Carter, il cui fallimento nella politica estera mediorientale aveva causato una sfiducia generale nei suoi confronti.

Parliamo di due personalità differenti rispetto a Donald Trump e Hillary Clinton, ma l’appoggio democratico, così come l’attacco di Carter a Reagan — accusato di essere “un pericoloso estremista di destra”— e i toni in cui si è svolta la campagna elettorale, non sono poi così lontani.

Reagan riceve la Medaglia per la Libertà nel 1993 alla Casa Bianca
Reagan riceve la Medaglia per la Libertà nel 1993 alla Casa Bianca

Detto ciò il voto americano non è stato un voto manipolato, né può essere liquidato semplicemente come un voto ignorante. Il voto americano è stato un voto politico a tutti gli effetti. Ma il voto americano, in particolare quello degli operai del Midwest, è anche un voto che palesa il rifiuto degli accordi commerciali internazionali che l’amministrazione democratica stava portando avanti.

Fermarsi all’aspetto superficiale legato alla xenofobia non basta a spiegare l’appoggio popolare nei confronti di una personalità anomala, volgare, fuori dagli schemi come Trump È successo in Pennsylvania e Ohio, due stati industriali, due degli stati che hanno segnato la vittoria repubblicana, dove il neo presidente eletto Donald Trump ha parlato del suo programma economico, all’insegna della critica del NAFTA, firmato da Bill Clinton, e del TTIP, il Trattato transatlantico che si sta negoziando tra USA e Ue, che gli ha favorito l’appoggio della classe operaia.

Manifestazioni contro il TTIP a Bruxelles, febbraio 2015 / Flickr
Manifestazioni contro il TTIP a Bruxelles, febbraio 2015 / Flickr

“Il TTIP, così come lo conosciamo, darebbe un colpo fatale all’industria americana,” dice durante un comizio, e non mancano gli applausi che fanno eco a quel rifiuto generale della classe politica che a partire dalla crisi 2007/2008, passando per il 2013, fino ad oggi, ha alimentato le proteste di piazza. Il TTIP è spinto da un gruppo lobbistico di cui fanno parte circa 70 multinazionali e le aree di intervento sono molteplici. Coinvolgono ogni ambito del commercio, all’insegna del liberismo, con un modello di tutela dalla funzionalità dubbia, che incontra lo scetticismo dei più.

Greenpeace tra l’altro, tra le prime organizzazioni all’interno della rete Stop TTIP impegnate contro l’accordo, ne ha più volte criticato la mancanza di trasparenza, la mancata tutela nei confronti dei lavoratori e dell’ambiente.

Donald Trump, cavalcando l’onda delle critiche e dell’insoddisfazione generale, da parte sua, l’ha definito “un attacco agli affari americani.”

Molte delle critiche al centro della campagna elettorale,  a cui la candidata democratica ha sempre dato risposte dubbie, riguardavano il supporto a tale accordo. Se n’è parlato al primo confronto, per i più vinto dalla Clinton, durante il quale con notevole savoir faire il repubblicano ha portato la democratica ad ammettere di aver creduto che si trattasse di “un accordo diverso,” dopodiché a prendere pubblicamente le distanze da Obama, supporter del TTIP, per quanto riguarda l’economia.

Ma, esposte le premesse che hanno in parte garantito la vittoria al tycoon, quale futuro per il TTIP?

Stando al discorso politico portato avanti finora, l’elezione di Trump bloccherebbe le trattative per l’accordo. È tuttavia vero che la dialettica propria della campagna elettorale, con i suoi toni accesi, non corrisponde sempre all’azione politica intrapresa poi nella realtà. E già nelle ultime ore la violenza verbale usata durante la corsa alla Casa Bianca pare essere smentita, e non solo dalla forma della dialettica utilizzata.

C’è poi da sottolineare che l’azione politica del Presidente è in realtà fortemente limitata dal Congresso, che è sì repubblicano, ma proprio per questo molto più vicino alle lobby multinazionali. A partire dalle primarie, il vero critico dell’accordo è sempre stato in realtà Bernie Sanders, insieme a quell’ala di sinistra che ne sosteneva la candidatura.

È difficile credere che un businessman dalle idee liberali blocchi un accordo così succulento. Esattamente come è altrettanto difficile credere che un uomo la cui logica imprenditoriale è pane quotidiano orienti l’accordo nell’interesse della cittadinanza. Le strade che si aprono sono due, quella di una sepoltura definitiva per la disapprovazione europea, o un accordo che porterà con sé un liberismo economico ulteriormente scellerato, aggravando la disuguaglianza salariale che già oggi dilania la popolazione.

Bernie Sanders, settembre 2015 / CC Phil Roeder, Flickr
Bernie Sanders, settembre 2015 / CC Phil Roeder, Flickr

La crescita del tasso d’inflazione seguita alla crisi energetica del 1973-74, nonché il progressivo aumento del carico fiscale sui contribuenti, sono tra gli elementi che favorirono l’elezione di Ronald Reagan nel 1981. Ma la sua politica economica, la reaganomics, con la sua combinazione di una politica di bilancio espansiva e una politica monetaria restrittiva condussero ad un aumento del tasso d’interesse (sia monetario che reale) e a un conseguente peggioramento del disavanzo pubblico, con un aumento delle disuguaglianze economiche.

In un gioco delle parti che oggi sembra ironico, fu la politica economica seguita nei due mandati Clinton a dare una ripresa all’espansione economica americana dopo la recessione degli anni 1990-91, sotto la guida del Segretario al Tesoro Larry Summers, uno dei teorici, tra l’altro, delle teorie della stagnazione e delle differenze nei redditi.

Il futuro degli accordi economici resta un punto di domanda, mentre questa sconfitta elettorale si configura sempre più come un fallimento che — a partire da un atteggiamento schizofrenico della sinistra — è il risultato della collezione di errori su errori, specie nella scelta di una dialettica che ha voluto semplicemente mostrare Trump quale xenofobo e razzista.

L’uomo della provvidenza, per recuperare un termine che in Italia conosciamo bene, non è altro che l’uomo dell’imprenditoria, che favorirà con ogni probabilità quel capitalismo che ci porta a vivere la condizione attuale, mentre i vari “He’s not my president” impazzano sui social, in particolare tra star e intellettuali pronti a trasferirsi.

Quello che ha perso di vista la stampa americana, ma non solo, insieme a tutto quel corpo di personalità del mondo dello spettacolo e intellettuale, è che laddove c’è malessere, la rabbia aumenta e il qualunquismo guadagna consenso. E la foga di un discorso che rispecchia i disagi della società diventa un punto di riferimento, una scelta.

“Una lotta di classe,” si è spinta a definirla Flavia Perina.