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“La Comunità del Giambellino è un’organizzazione nata come associazione di volontari in parrocchia negli anni Settanta, intorno alla figura di un prete sperimentatore, motivato, rivoluzionario, Renato Rebuzzini. Aveva iniziato a ospitare in parrocchia, in casa sua, i primi tossici — già quando era a Baggio. Arrivato al Giambellino ha incrociato un gruppo scout, anche quello innovativo. Ancora oggi è rimasto molto di quello spirito — a differenza di allora siamo tutti professionisti, però ci paghiamo tutti uguale, il presidente prende come l’ultimo entrato.”

Il Giambellino è nato negli anni Venti, in una Milano che parlava ancora soprattutto il dialetto, associando all’identità cittadina un’altra fortemente operaia. Le fabbriche erano soprattutto sul Naviglio Grande, a Sud del quartiere, in quella che oggi ne è diventata la parte più chic e valorizzata tra via Savona e via Tortona. Il tutto delimitato dalla ferrovia, costruita apposta per le industrie. Quasi sempre ci si riferisce al quartiere in modo generico come “Giambellino,” ma i quartieri popolari in realtà sono due: il Giambellino vecchio, vicino a piazza Frattini, e quello nuovo, che Aler chiama Lorenteggio. Entrambi i lotti di case popolari sono suoi, e sono entrambi malmessi.

La Comunità del Giambellino si trova su una traversa dei due viali, e cerca di tenere insieme i pezzi di un quartiere malato. Il servizio per l’aggregazione giovanile svolto dalla Cooperativa per il quartiere è riconosciuto dalla regione e sostenuto dal comune attraverso un contributo – “che però è sempre più piccolo, sempre più complicato da ricevere”, secondo il coordinatore Dario Anzani. L’abbiamo incontrato nella sede del Centro per farci raccontare del Giambellino — della sua storia e dei suoi problemi, e di cosa vuol dire viverci nel 2016.

UN QUARTIERE POPOLARE E VARIEGATO

Il quartiere è costruito su due vie — via Giambellino, appunto, e via Lorenteggio, due lunghissimi viali che partono dalla cerchia dei bastioni verso viale Papiniano e si dirigono verso la periferia sud-ovest, perdendosi verso Corsico. Chi li percorre partendo dal centro vede le case diventare sempre meno ricche e ben costruite fino ad arrivare ai quartieri popolari. “Io distinguo almeno tre tipi di periferie milanesi,” ci spiega Anzani. “Ci sono Baggio, Lambrate, o Niguarda, che erano paesi e conservano una propria identità, non immediatamente collegabile con l’essere figli di operai o comunque svantaggiati: a Baggio c’era una classe abbastanza agiata, una classe media di piccoli possidenti — e ancora c’è una Baggio bene, diciamo. Questi quartieri sono molto diversi da quelli propriamente operai, e all’interno dei quartieri operai io, che sono di Quarto Oggiaro, mi accorgo che il Giambellino è qualcos’altro.”
Giambellino, fino a qualche anno fa, era un quartiere sì popolare, ma con un tessuto sociale misto. “Mi sembra più simile a quartieri come Casoretto, quartieri popolari con una salda cultura operaia però dentro un tessuto più variegato, dove vai a scuola e incontri il figlio dell’impiegato, il figlio del negoziante, addirittura anche il figlio dell’imprenditore. Perché la scuola pubblica permetteva questo.” Oggi — come negli ultimi quarant’anni — la zona può essere ulteriormente divisa in base al censo. La ricchezza, oltre che proseguendo sui grandi vialoni verso le periferie, diminuisce anche allontanandosi dalla Linea 1 della metropolitana, che sfiora la parte Nord del quartiere, ospitando una zona di classe media vicino a quella popolare.

Negli anni ’60 e ’70, di grande partecipazione e dibattito, Giambellino era una zona estremamente viva. “Non ho un dato preciso, ma raccolgo da anni materiale sul quartiere: il Giambellino in quegli anni era la zona con il tasso più alto di associazioni di Milano, associazioni di tutti i tipi. Il convitto Rinascita, la più grossa esperienza educativa della Storia del PCI, era qua dietro: la mensa era aperta al quartiere — sono stati quelli che a Milano han portato il parmigiano reggiano agli operai, se lo facevano portare dalle coop rosse dell’Emilia.” Giambellino è piena di storia e curiosità se si è interessati al movimento operaio italiano. “Negli anni ’60 si era creato un gruppo maoista chiamato Luglio ’60 che criticava il PCI da sinistra. Ed era diventato un fatto rilevante, tanto che vennero invitati a Pechino. C’è ancora una foto di Mao Tse-tung e Zhou Enlai con gli operai del Giambellino.

La vitalità politica del Giambellino però non era limitata solo all’attivismo di sinistra, come testimonia l’ormai remota origine parrocchiale dell’associazione. “I cattolici al Giambellino dopo il sessantotto ne han fatta di roba. Qua nei vecchi rifugi antiaerei si trovavano per ascoltare la lettura del Vangelo fatta dai laici, che era proibita! Ci siamo fatti raccontare qualcosa da un attivista di quegli anni e abbiamo scoperto che una volta avevano occupato la parrocchia. Hanno recitato loro l’omelia, perché volevano parlare durante la messa.”

“Siamo lì a discutere per ottenere che ci facciano parlare. All’improvviso si spengono le luci e — ué, ci han dato un sacco di botte!”

Alcune di queste storie sono contenute nel libro scritto dal Collettivo Immaginariesplorazioni qualche anno fa, Nella tana del drago. “Questo atteggiamento lo ritrovo anche nei ragazzini. Sono diversi da quelli di Quarto Oggiaro, cresciuti con persone che avevano strumenti culturali differenti. A Quarto non succede mai niente — quando ero piccolo la lotta era tra sottoproletariato e operai, e tutta la mia infanzia era mia madre che mi metteva in guardia dai terroni. Non che Giambellino non fosse duro, perché comunque qua le storie erano terribili: eroina a fiumi — via Odazio la definivano la piazza di spaccio più grande d’Europa — venivano dalla Germania a comprare la roba qua… Ad esempio c’era questa coppia di fratelli catanesi messi malissimo in famiglia, una situazione davvero disastrata, ma che erano innamorati della musica soul. Al Giambellino la cultura che respiri è quella del proletario che sa come funziona il mondo, che sa da che parte girarsi. Io sono innamorato della gente del Giambellino.”

UN QUARTIERE CHE SI SGRETOLA
GUeRRA TRA POVERI

Negli anni ’80 però arriva la Milano da bere, il riflusso. Le fabbriche cominciano a chiudere e la generazione di ricchezza in città si sposta dalla fabbricazione di beni alle pratiche finanziarie. “L’evoluzione di Milano è andata in una direzione per cui questo quartiere è finito trattato molto male. La fabbrica era scuola di vita, ci entravi a quindici anni e ti insegnava a vivere e a prendere coscienza della tua posizione sociale. Le lotte per la nocività ad esempio: c’era il tornio e ogni due per tre qualcuno ci andava dentro con la mano e perdeva il braccio — il padrone si rifiutava di spendere due soldi per mettere un pannello. Scioperavano tutti insieme perché era chiaro che non cambiava tanto se la mano era di uno di Palermo, di un milanese o un veneto: era un interesse comune. Solidarietà e capacità di vedere negli altri l’identità degli interessi. Adesso la fabbrica non c’è più, nel ’93 hanno abolito i bacini di utenza delle scuole e il giambellino è andato gambe all’aria.
“Un quartiere particolarmente coeso nel giro di poco tempo si è separato. Già alle elementari le famiglie decidono dove mandare a scuola i bambini — No lì dove ci sono gli stranieri non ce lo mando. L’autonomia scolastica negli ultimi vent’anni ha distrutto tutto. Le scuole che sono vicine al centro si sono riempite a dismisura, e scoppiano; qua invece si è svuotato tutto. La scuola media ha chiuso già a fine anni ’90, la Gioberti, quella del quartiere popolare, adesso abbiamo problemi con quella di fianco, la scuola di via Anemoni, che si sta svuotando pure quella.”

“Qualche tempo fa, proprio con le scuole, siamo arrivati alla pazzia. Qua vicino abbiamo la Ugo Pisa, scuola elementare, vicino alla fermata della metro Inganni — non ricchi ma benestanti — e la scuola di via Narcisi, piena di bambini stranieri. L’istituto di via Pisa però è stato danneggiato dal terremoto dell’Emilia, dunque i bambini che lo frequentavano li si è dovuti spostare in via Narcisi — con navetta e tutto. Le insegnanti della via Pisa però hanno preteso che i loro alunni stiano in un’ala e quelli della via Narcisi in un’altra, con ingressi separati. Per cui se il pomeriggio vai all’uscita da una parte vedi tantissime mamme straniere che vengono a prendere i bambini coi grembiuli di seconda mano e le cartelle lise, di là invece vedi tutte le mamme e i bambini ricchi, con le babysitter, belli infiocchettati. Sembra l’Alabama nel 1960, invece è il Giambellino nel 2015.”

“Il ceto medio che si sta impoverendo e non vuole smettere di essere ceto medio si incazza con gli egiziani. Ad esempio, un lavoro diffuso tra le famiglie della zona era la costruzione degli stand in fiera. Cosa fa papà? chiedevo ai ragazzini. Costruisce gli stand in fiera. Adesso no, lo fanno i sudamericani, non li pagano un cazzo, ormai arrivano anche dei tecnici qualificati oltre alla manovalanza. Tanti qui facevano i fioristi. Adesso lo fanno gli indiani. O gli egiziani copti che han tutte le pizzerie. E quindi parte la guerra tra i poveri. C’è una competizione economica, perché si abbassano i prezzi del lavoro.”

“Io sono convinto che mettere insieme negli anni del boom i montanari calabresi coi contadini veneti, qui a Milano, non sia stato molto più facile che mettere insieme addesso italiani e immigrati. E’ stata una magia della periferia di Milano. Se entri in una classe e chiedi ai ragazzi quanti di loro hanno genitori e nonni meridionali e per quanti questo è stato un problema durante la loro vita, adesso ti rispondono: nessuno! È successo nell’arco di vent’anni: scuola e fabbrica.

Se non ci sarà un sistema — perché manca la fabbrica, e sta mancando la scuola — se gli stranieri non riusciranno ad alzare la voce e a chiedere condizioni di vita migliori continueranno ad essere scelti dai borghesi e odiati dai proletari italiani, e questa guerra non finirà mai. Quello che dobbiamo ottenere per salvare non solo il Giambellino ma tutte le periferie, paradossalmente, è il voto agli stranieri e la cittadinanza veloce. Poi insegnare l’italiano a ttutti quanti, creare programmi di inserimento lavorativo. Le scuole devono essere un luogo di integrazione.”

“Chiaro che fare l’educatore in un posto così rischia di essere un po’ come far ballare la scimmia. Chiaro che fare l’educatore in queste situazioni rischia di essere come far ballare la scimmia. Siamo giunti all’idea che è il territorio che educa. Noi nel nostro lavoro possiamo anche essere molto bravi ma io un ragazzino al doposcuola lo vedo tre, cinque ore a settimana e se il territorio — famiglia e scuola ma anche vicini di casa, negozianti, carabinieri, vigili, dicono e fanno l’opposto di quello che dico io, quelle cinque ore non servono a niente. Non possiamo pensare di fare un luogo educativo in una comunità che va a rotoli, dove non c’è legame, con persone isolate.

SETTECENTO ALLOGGI SFITTI: LA MALAGESTIONE DI ALER

Anche al Giambellino uno dei grandi mali si chiama Aler, che ha lasciato un terzo delle case del quartiere popolare di Lorenteggio vuote, facendole andare in rovina: settecento appartamenti non assegnati. Tutte le case dei grandi comprensori locali sono di sua proprietà. “Aler ha creato un’isola di malessere. I disperati della città vengono qua — chiaro, sono case vuote riscaldate, non assegnate da anni. Questo significa attirare una popolazione di passaggio, persone che arrivano qua e imparano quattro parole, e poi appena trovano un lavoretto qualunque si spostano. Giambellino svolge la funzione di centro d’accoglienza ufficioso.”
“Tutto avviene nel chiuso di un quartiere popolare dove le sopraffazioni sono all’ordine del giorno. Se so di essere qui di passaggio e so dessere precario perché occupo pagando solo un pizzino alla malavita, cosa me ne frega di fare la raccolta differenziata? Di portare le cose alla ricicleria dell’AMSA? Di avere buoni rapporti coi vicini? Anzi, conviene quasi spaventarli, i vicini, così hanno meno voglia di chiamare la polizia. C’è un’atmosfera di rabbia repressa spaventosa nelle case popolari.”

Beppe Sala in campagna elettorale ha dichiarato di voler rendere agibili i 2000 appartamenti di proprietà del comune attualmente sfitti. Complessivamente, a Milano, ci sono ventitremila famiglie in lista d’attesa per l’assegnazione di una casa, ma la domanda abitativa in realtà è ancora più alta. “Ad esempio, se hai occupato negli ultimi cinque anni non ti possono mettere in graduatoria. Quando sgomberano le famiglie, le mandano in posti spaventosi, come il campo di via Barzaghi. Capannoni in lamiera divisi in quadrati da tende, dove ci sta soltanto il letto. E c’è gente che sta lì da più di un anno, due anni, in attesa di un’assegnazione. Ma, in quanto ex-occupanti, non possono essere messi nelle liste. Io mi suiciderei.”

“Siamo arrivati alla follia di considerare privilegiati quelli che hanno una casa a Lorenteggio — gente che ha la cantina allagata da più di dieci anni e paga comunque per servizi che non riceve.”

SCENDI, CI SONO I FONDI EUROPEI

Il comune, qualche tempo fa, ha finalmente deciso di utilizzare per il restauro di alcuni palazzi Aler dei fondi in origine destinati ad altri progetti. A quel punto la Regione, che è l’ente pubblico dietro ad Aler, ha deciso di fare un piano di intervento, che ha impiegato per Lorenteggio dei fondi europei. I fondi europei però arrivano con molti vincoli, e possono essere usati, in sostanza, solo per costruire qualcosa di nuovo — non per la manutenzione ordinaria degli stabili, che l’Ue pretende sia finanziata dall’ente responsabile. “Ci vuole un piano speciale, una serie di interventi da fare insieme. Innanzitutto mettere a posto le case e assegnarle.”

“Qua subiamo un attacco che Quarto non subisce, perché Quarto non è appetibile al mercato immobiliare. Giambellino non è così. È attaccato a Piazza Napoli e in un attimo ti senti in centro — ci sarà la metro, ormai abbiamo la città della moda che sale, e la via Savona è percepita dai ragazzini come la più figa del quartiere – io vent’anni fa ricordo che era la più sfigata, con le fabbriche abbandonate. Oltre la ferrovia ci sono i nuovi palazzi di vetro con la sede della Vodafone. 

“Se parli con quello che sta nelle case popolari ti dice una cosa, quello che sta di fianco alla Vodafone un’altra, quello che sta vicino al centro un’altra ancora.”

“Qualche tempo fa abbiamo fatto un sondaggio con la Caritas e abbiamo scoperto che in base a con chi parli l’idea di quartiere cambia. Se parli con quello che sta nelle case popolari ti dice una cosa, quello che sta di fianco alla Vodafone un’altra, quello che sta vicino al centro un’altra ancora. È un po’ come quei libri di fantascienza anni 60, degli ambiti che vivono tutti in parallelo e non si incrociano mai. Noi vogliamo lavorare sull’aspetto dell’incrocio. Scendi c’è il cinema l’abbiamo inventato noi, ha sessantamila like su Facebook. Quella roba lì nasce dal laboratorio di quartiere e coinvolge gli abitanti. Portiamo film mica da ridere e che fanno cultura, ma li facciamo scegliere agli inquilini: parte tutto sei mesi prima con una lista di film tra cui si può scegliere tutti insieme. Arriviamo noi in 50 a dare l’anguria e tutti sono felici. È molto di più di guardare il film.”