La persecuzione “involontaria” dei rifugiati afghani in Pakistan
Violenze quotidiane da parte della polizia, documenti non rinnovati, segregazione mediatica. Il Pakistan sta rendendo impossibile la vita ai cittadini afghani residenti nel Paese.
Violenze quotidiane da parte della polizia, documenti non rinnovati, segregazione mediatica. Il Pakistan sta rendendo impossibile la vita ai cittadini afghani residenti nel Paese.
Sabato scorso, 10 settembre 2016, abbiamo parlato con il responsabile di IOM Afghanistan per cercare di far luce sulla crescente emergenza dei rifugiati “di ritorno” in Afghanistan, afghani che avevano cercato salvezza in Pakistan e che ora tornano in patria.
Le risposte che abbiamo ricevuto dall’IOM, l’auto-battezzata Organizzazione internazionale per i migranti, un’organizzazione intergovernativa fondata nel ’51 per gestire le migrazioni interne all’Europa dopo la Seconda guerra mondiale, sono state profondamente deludenti: l’unico punto chiaro emerso dalla nostra conversazione è una certa sospetta rigorosità con cui l’organizzazione definisce le persone che aiuta a tornare in Afghanistan — “afghani senza documenti.”
Non ci è stata data risposta su come queste persone vengano raccolte o trasportate lungo il confine tra i due Paesi.
Per capire cosa stia succedendo, The Submarine ha parlato con Saroop Ijaz, ricercatore di Human Rights Watch in Pakistan.
Ma prima, un passo indietro.
Il problema dell’ospitare rifugiati afghani non è nuovo per il Pakistan, al contrario, è vecchio quanto la prima guerra in Afghanistan: il Pakistan agì all’epoca come agente locale di Stati Uniti e Arabia Saudita per addestrare e equipaggiare i mujaheddin che combattevano contro le forze della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, sostenuta dall’Unione Sovietica. Il Pakistan giocò un ruolo fondamentale nella radicalizzazione di chi fuggiva dalla guerra e la propaganda e l’istruzione pakistana sono le basi su cui si poggia gran parte dell’ideologia islamista contemporanea.
Dire che in Pakistan sia avvenuta solo la radicalizzazione della popolazione afghana è però una eccessiva semplificazione, che grandemente alleggerirebbe le responsabilità dell’attuale politica pakistana.
Due delle quattro province pakistane, infatti, il Belucistan — vasto e geograficamente simile all’Afghanistan — e il Khyber Pakhtunkhwa, dipendono strettamente dal lavoro e della ricchezza di cittadini afghani. La ricchezza prodotta dalle famiglie e dai lavoratori afghani è indubbia — così come lo sono i 150 milioni di dollari che il Pakistan riceve ogni anno da una serie di organizzazioni umanitarie coordinate dalle Nazioni Unite.
“Eppure non passa giorno senza che la stampa vicina al governo non dipinga i cittadini afghani come un pericolo per la sicurezza,” ci spiega Saroop Ijaz.
“È in corso uno slittamento di politiche, sia a livello federale che a livello provinciale e locale. Si sta cercando di creare un ambiente in cui per i cittadini afghani non ci sia altra soluzione se non tornare nel proprio Paese.”
La questione degli “undocumented afghan” resta piuttosto sfocata, ma due chiarimenti dalla nostra conversazione con Ijaz aiutano a sostanziare chi siano.
Il governo pakistano ha smesso di rilasciare nuove “Proof of Registration cards,” i documenti sostitutivi al permesso di soggiorno che rilascia ai cittadini afghani — appunto, non un visto ma una registrazione della permanenza di un cittadino di un altro stato. È permesso invece, ai governi provinciali, di rinnovare le schede già rilasciate.
“Quello che succede, in particolare nella provincia KP (il Khyber Pakhtunkhwa di cui sopra, ndr), è che i governi locali lascino che le schede scadano, e possono passare anche settimane o mesi prima che vengano rilasciate nuovamente.” In quel periodo, tutti, anche chi non vive in Pakistan da tutta la vita, è un afghano privo di documenti.
“Questo contesto crea un ambiente che permette pesanti abusi di diritti umani basilari da parte della polizia locale. Sono normalità casi di intimidazioni e estorsioni.”
Si tratta quindi di rimpatrio coercitivo? Senza in nessun modo accusare IOM, è chiaro che il Pakistan voglia liberarsi di quanti più afghani possibile.
“No, tecnicamente non è rimpatrio coercitivo, e non c’è nessun collegamento tra IOM e il governo pakistano. Quello che sta succedendo è che il governo sta creando un contesto dove attori diversi possano insieme creare le condizioni di un rimpatrio… volontario. Non ho dubbi che il governo pakistano abbia in programma di allontanare quanti più afghani possa. Gli abusi non sono autorizzati, le operazioni di IOM non sono accordate con il governo, ma insieme si creano le condizioni per una fuga di massa, senza nessuna responsabilità politica.”
Nessuna responsabilità politica nemmeno agli occhi della comunità internazionale?
“È importante sottolineare che il Pakistan non ha mai firmato il protocollo del 1967, e prima, la convenzione del 1951. Questo significa che a prescindere dalle opinioni della comunità internazionale, all’interno, politicamente, il governo è sollevato da qualsiasi standard di riconoscimento dello status e dei diritti dei rifugiati. Oltre ai pretestuosi problemi di sicurezza, il problema principale sollevato è quello dei fondi, della mancanza di risorse. Questa è una posizione estremamente facile da sostenere in Pakistan, che sente di essere a tutti gli effetti uno stato di frontiera, dove l’emergenza migranti ha un impatto vero e quotidiano.”
La retorica che vuole che i poverissimi slum afghani Katchi Abadi siano territorio fertile per terroristi è facile da portare avanti dopo l’influsso di rifugiati dalla guerra in Afghanistan del 2001.
Questo è lo stesso marchio di retorica che ascoltiamo quotidianamente anche in Europa, chi sia un rifugiato e chi no. Ma sembra chiaro che in questo caso si tratti esclusivamente solo di rifugiati.
“Sì, queste sono persone che sono venute in Pakistan per scappare alla guerra. È importante definire e separare le categorie di migranti economici e rifugiati, ma sono classificazioni serie, che non possono essere fatte alla leggera, non possono essere improvvisate. Per questo, se si vuole neutralizzare la questione della mancanza di fondi, la comunità internazionale dovrà ampliare grandemente le risorse che concede al Pakistan — che, senza in nessun modo voler dar ragione al governo, ne ha effettivamente bisogno — possibilmente legando lo stanziamento di questi fondi alla ratifica di accordi internazionali che garantiscano il rispetto dei diritti dei rifugiati afghani.”