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A Como è in corso un’emergenza migranti destinata con ogni probabilità a durare a lungo. Dozzine di rifugiati diretti in Germania stazionano lungo il giardino pubblico davanti alla stazione di San Giovanni, in attesa di provare a raggiungere la loro destinazione. La maggior parte di loro però non riesce nemmeno ad avvicinarsi alla meta: mentre attraversano la Svizzera, infatti, molto spesso vengono fermati e rispediti indietro. A Como.

Non è sempre stato così: le autorità elvetiche sono state per molto tempo tolleranti con chi transitava lungo il proprio territorio. Negli ultimi tempi però la Svizzera ha deciso di seguire una politica meno tollerante, a causa anche dell’aumento delle domande di asilo nel suo territorio: secondo un articolo de La Stampa, gli arrivi sono aumentati del 50% nell’ultimo anno, e gli stranieri “pizzicati” a transitare e rispediti in Italia sono balzati dal 10 al 70%.

“Quando li prendono, li tengono in cella per tre giorni” , ci racconta una volontaria comasca. “Poi li rispediscono in Italia”. I migranti vengono rispediti in Italia con dei pullman – un po’ come fanno le autorità francesi con chi colgono oltre il confine di Ventimiglia. E così molti finiscono per tornare alla stazione di Como, dove si è formato un collo di bottiglia successivo a quello già costipato di Milano.

Settimana scorsa il fenomeno ha raggiunto il suo picco, con circa centocinquanta migranti accampati sotto il portico della struttura e soprattutto nel parco sottostante alla scalinata che conduce dalla stazione al centro città. Oggi le persone presenti non sono così tante, ma molti profughi passano ancora la notte all’addiaccio.

Quando arriviamo, la maggior parte di loro è nel parco a sistemarsi per la notte. Moltissimi contano di provare ad attraversare il confine alle prime luci dell’alba – qualcuno in treno, qualcuno non in treno ma costeggiando la ferrovia, altri a piedi lungo qualche sentiero di montagna.

Come in tutte le altre cosiddette “emergenze rifugiati” che abbiamo avuto modo di vedere, la gestione diretta e quotidiana delle persone che transitano non è organizzata e affrontata dalle autorità pubbliche, ma dai volontari. “L’amministrazione non vuole che si parli troppo di quanto succede qui in stazione, perché ha paura di ammettere che sarà qualcosa con cui avere a che fare a lungo,” si lamenta uno dei volontari. Il Comune finora ha messo a disposizione uno spazio lungo via Innocenzo XI, un largo viale costellato da impianti industriali semismantellati vicino alla stazione.

Lo spazio è un cortile sul retro di una caserma della Polizia Locale, nel quale la Croce Rossa Italiana ha allestito un tendone dove possono dormire una trentina di persone. Ovviamente non possono entrarci tutti coloro che ne avrebbero bisogno, dunque l’accesso è limitato a donne, bambini e anziani. Le donne possono portare con loro un compagno – il fratello, il marito. Non molti però sono attratti dall’idea di dormirci dentro.

“Hanno paura,” ci raccontano i volontari della Chiesa Pastafariana, a cui aderiscono numerosi operatori qui.

“Dietro la tenda c’è lo stemma della Polizia Locale, forse è quello a incutergli timore”. La tenda è stata montata da qualche giorno ma praticamente nessuno ci è andato a dormire: ieri, addirittura, è rimasta chiusa, e sarebbe dovuta rimanerlo anche oggi.

Intorno alle dieci di sera, però, mentre eravamo sul posto, una ragazza etiope al nono mese di gravidanza ha iniziato a sentire delle contrazioni. I volontari sono riusciti a persuadere lei e il marito a trovare ospitalità e passare la notte al riparo. Aiutiamo alcuni di loro a caricare sulla propria auto dei sacchi pieni di vestiti donati alla coppia, poi raggiungiamo la tenda a piedi. “Purtroppo non riusciamo a convincerli. Basterebbe farne venire qualcuno, e poi siamo convinti che gli altri seguirebbero.”

 

C’è anche – e forse soprattutto – un problema di natura linguistica: i migranti non parlano quasi mai inglese e per comunicare con loro è necessario sapere l’arabo. “Servirebbero dei mediatori culturali. Con loro a disposizione tutto sarebbe più semplice”. Una ragazza dello Zambia collabora già con gli operatori, ma la ricerca di qualche mediatore in più sarà una delle sfide centrali dell’ immediato futuro per l’accoglienza di Como. Nelle ultime settimane c’è stata una grandissima risposta di solidarietà, che va ancora irregimentata. I volontari provengono da molte aree diverse – Chiesa Pastafariana, Rifondazione Comunista, alcune sigle studentesche e sindacali – e la responsabilità principale sarebbe della Caritas. Molti volontari, però, sono critici.

“Quelli della Caritas però si fanno vedere al telegiornale. Qui non li ho mai visti.”

Mentre la coppia etiope si sistema per la notte, alla tenda arriva la voce che la polizia abbia sgomberato il portico della stazione, dove fino a poco prima avevano trovato rifugio i profughi. Ci rechiamo sul posto e scopriamo che è un falso allarme.

“Oggi la polizia è tesa,” ci riferisce un’operatrice. “In genere non è così.” Ci sono camionette fuori dal piazzale della stazione e lungo la strada in pendenza ai lati del parco/accampamento, che porta verso il centro città. Sotto i portici invece ci sono ancora diversi ragazzi e famiglie africane. S. ci racconta che è stato rimandato in Italia da Chiasso, appena oltre il confine. “Ieri notte ho dormito in Svizzera,” ci dice. “Sono passato da Milano e ho oltrepassato il confine.” Stasera c’è anche una ragazza che parla arabo e prova a convincere un paio di ragazzi etiopi a venire nella tenda.

Si capisce subito è un’impresa quasi impossibile. Prima le loro famigliari – probabilmente la madre e la sorella – provano a dissuaderli anche solo dal seguire i volontari; poi vengono con noi a vedere la struttura, ma mettono le mani avanti: verranno, ma poi dovranno tornare in stazione ad aspettare un fantomatico loro fratello che è andato non si sa bene dove. E così fanno. Nella tenda, oggi, dormono solo in tre: i due futuri genitori etiopi e il loro bambino, concepito lontano e destinato a nascere da qualche parte in mezzo all’Europa.