The_International_2014

in copertina, foto CC-BY Jakob Wells

Chi ha giocato al primo episodio di Metal Gear Solid per l’originale Playstation si ricorderà sicuramente il duello, in un campo completamente innevato, a colpi di fucile di precisione tra Solid Snake e la cecchina russa Sniper Wolf. Non tutti forse si ricordano la possibilità di usufruire di una strana sostanza che rendeva il combattimento più facile: per stabilizzare la mira e fermare i movimenti involontari del tuo personaggio, era possibile utilizzare una dose di diazepam, un tranquillante realmente esistente, conosciuto più comunemente con il nome commerciale di valium.

Purtroppo sembra che alcuni videogiocatori professionisti se lo ricordino fin troppo bene: negli ultimi mesi, infatti, molti di loro hanno dichiarato di avere fatto uso di questa e altre sostanze simili. È in questo modo che lo scandalo del doping ha iniziato a contaminare anche il mondo degli eSport.   

Con il termine eSport – abbreviazione di “electronic sport”, o sport elettronici – si indicano tutti quei videogames che vengono giocati a livello competitivo e professionistico.

Benché sia nato all’incirca a metà degli anni Novanta e riguardi diversi generi videoludici, solo negli ultimi tempi il fenomeno ha raggiunto dimensioni incredibili, grazie soprattutto alla popolarità raggiunta dai MOBA (Multiplayer Online Battle Arena), genere di cui fanno parte alcuni dei titoli più giocati al momento – sia a livello competitivo che amatoriale – come League of Legends, DOTA 2 e Smite.

Si parla quindi di federazioni nazionali e internazionali, tornei ufficiali istituiti da organizzazioni e software house con montepremi di svariati milioni di dollari a cui partecipano team di veri e propri atleti professionisti, oltre ai relativi coach e staff tecnici, che si allenano e giocano insieme proprio come i giocatori di un qualsiasi sport a squadre tradizionale.  

Forse può sembrare strano sentire associato il termine “doping” ad una attività così “statica” come giocare ai videogiochi, e in effetti molte persone hanno ancora difficoltà a riconoscere questa attività – anche quando praticata a livello competitivo – come uno sport.

Sebbene sia vero che l’attività fisica richiesta durante incontri di questo tipo sia minima, sono altre le capacità richieste ai professionisti di questi sport, come la prontezza di riflessi e la coordinazione, il lavoro di squadra, la memorizzazione e l’applicazione di decine di strategie diverse a seconda della situazione del momento.

Chi è un professionista in questo tipo di attività deve quindi sottoporsi quotidianamente a sessioni di allenamento intensivo per imparare nuove tattiche e migliorare le capacità richieste dal genere videoludico prescelto e viene seguito da un allenatore e un team di professionisti che si preoccupano del suo rendimento e della sua salute; proprio come negli sport tradizionali, le varie squadre organizzano anche dei ritiri di preparazione prima dei grandi eventi. Oltre ai vari match, poi, spesso i giocatori di eSport hanno diversi impegni da PR, come gli incontri e i raduni con i fan, aggiungendo così altre cause di stress e stanchezza.

Avendo un quadro della situazione più completo è facile capire di cosa si tratta quando si parla di doping negli eSport: sono sostanze che non migliorano le prestazioni fisiche in senso stretto, ma quelle cerebrali e cognitive come memoria, concentrazione, resistenza alla fatica, diminuendo lo stress e l’ansia da prestazione. Per questo vengono anche chiamate smart drugs , o nooptropic, dal greco, crasi tra la parola “nous”, che si può tradurre con “mente” o “cervello”,  e “tropein”, che vuol dire “nutrire”. Gli atleti che ne fanno uso sono in grado quindi non solo di affrontare partite intense senza accusare mai nessun tipo di calo d’attenzione e senza subire la tensione che eventi così importanti comportano, ma possono anche sottoporsi a sessioni d’allenamento lunghissime per poter massimizzare gli sforzi prima dei tornei più importanti: la somma di questi effetti viene definita in inglese neuroenhancement, traducibile come “neuropotenziamento”.

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foto CC-BY Tony Webster. Elaborazione CC-BY the Submarine

Tra le sostanze più abusate c’è sicuramente l’Adderall, un medicinale originariamente utilizzato per curare alcune malattie psichiche come la sindrome da deficit dell’attenzione e iperattività, o i disturbi bipolari e che rientra a pieno titolo tra le anfetamine. Vengono anche utilizzati altri farmaci prescrivibili come il Ritalin o lo statunitense Vyvanse che sortiscono lo stesso effetto: sono tutte sostanze che creano dipendenza e assuefazione, quindi per mantenere alte le prestazioni il dosaggio va aumentato di continuo, con il rischio di mandare in overdose chi ne fa uso. Inoltre, gli effetti collaterali sono molteplici e vanno dai più “banali” come vertigini e nausea alle più gravi come affaticamento respiratorio, brachicardia, ipotensione e altri problemi cardiaci che possono portare alla morte.

Il problema del doping negli sport elettronici in realtà sembra essere sempre stato presente, fin da quando hanno iniziato a crescere in popolarità. Bjoern Franzen, un ex consulente del SK Gaming – una delle più importanti associazioni tedesche di sport elettronici – nell’agosto del 2014 ha dichiarato che il doping negli eSport è molto più presente di quanto la gente creda, e di aver visto con i propri occhi diversi ragazzi fare uso di smart drugs. Soprattutto in Asia, a quanto pare, l’utilizzo di anfetamine viene consigliato direttamente dai coach ai propri giocatori, come “integratori energetici”, senza il minimo riguardo per le conseguenze.

Benché siano stati pochi gli atleti ad aver ammesso apertamente nel corso degli anni di aver fatto uso di droghe durante i tornei o gli allenamenti, il vaso di Pandora è stato ufficialmente aperto nel luglio del 2015, quando Kory “Semphis” Friesen, un giocatore professionista di Counter Strike: Global Offensive, ha confessato durante un’intervista che l’intera squadra era stata sotto l’effetto di Adderall per tutta la durata di un torneo tenutosi pochi mesi prima ed organizzato dall’ESL (Electronic Sport League, forse la più grande lega di giochi elettronici a livello mondiale).

A seguito della rivelazione di Friesen, la ESL è corsa subito ai ripari, dichiarando che ci sarebbero stati dei controlli anti-doping fin dal loro successivo torneo che si sarebbe tenuto meno di un mese dopo, in agosto.

Gli esami sarebbero stati somministrati casualmente nel corso di tutto il torneo attraverso un test della saliva ai giocatori, e qualora uno dei giocatori fosse risultato positivo, sarebbe incorso in sanzioni che potevano andare da una multa fino alla sospensione per due anni dalla partecipazione a futuri eventi. Da quel momento, queste sono le norme adottate dalla ESL in tutte le loro manifestazioni.

Sebbene sia innegabile che un primo passo sia stato fatto, purtroppo un monitoraggio di questo tipo non è sufficiente, in quanto lascia diverse possibilità di fuga a chi eventualmente dovesse fare uso di smart drugs. Per esempio, il test salivare non ha un valore giuridico in quanto può facilmente dare un falso positivo, e di conseguenza i giocatori possono rifiutarsi di sottoporsi al test. Le punizioni inoltre sembrano essere ritenute da molti troppo leggere.

Come se non bastasse, questi controlli vengono eseguiti soltanto durante gli eventi della ESL, ma non esiste un sistema di ispezione condivisa con tutti gli organizzatori di tornei; alcuni di essi, poi, tendono a rimanere il più possibile sul vago quando si parla di sostanze dopanti: nel suo regolamento la Riot Games, la casa di sviluppo di League of Legends e di conseguenza una delle società di eSport più influenti in assoluto, non vieta espressamente l’utilizzo di droghe ma si limita a condannare tutto quello che viene definito illegale o contrario allo spirito sportivo.

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Se la domanda è: “Cosa spinge dei ragazzi, spesso giovanissimi, ad assumere sostanze dopanti per incrementare le loro prestazioni, correndo dei seri rischi per la propria salute?”, la risposta è molto semplice: gloria e soldi. I montepremi messi in palio in queste manifestazioni crescono anno dopo anno, come la loro popolarità. Per atleti così giovani è quindi una tentazione molto grande affidarsi a queste sostanze per vincere più facilmente e con meno fatica.

Ma bisogna cercare di capire perché gli organizzatori di questi tornei abbiano delle politiche così blande sull’uso dei droghe. Sempre nel blog di Bjoern Franzen troviamo un’ipotesi molto verosimile: gli organizzatori e le società vogliono che i loro tornei siano spettacolari, adrenalinici e pieni di colpi di scena per poter attirare più pubblico possibile, di conseguenza più sponsor, di conseguenza più soldi. L’uso di tali sostanze permette ai giocatori di essere sempre al massimo della forma, perciò viene implicitamente concesso.

Un’altra motivazione, però, può risiedere anche nella reputazione degli eSport e nella loro mancata equiparazione agli sport tradizionali da parte di molte persone: se viene riconosciuta la capacità delle smart drugs di migliorare alcune abilità, indirettamente si riconosce la necessità di possedere tali abilità.

In un perverso meccanismo retorico, la presenza del doping negli sport elettronici è esso stesso il riconoscimento del loro statuto di sport.

Sebbene con ogni probabilità non sia questo il primo e unico motivo per cui le società tendono a essere così aperte nell’uso di droghe durante i loro tornei, è indubbio che a livello inconscio l’ambiguità sullo statuto degli eSport giochi un grande ruolo in molte delle dinamiche al loro interno.

In Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty il diazepam era sparito. Al suo posto, si poteva trovare il pentazemin, una sostanza con le stesse proprietà ma inesistente nel mondo reale: un escamotage per evitare problemi legali e contemporaneamente mantenere gli stessi effetti. Speriamo che nel mondo reale, quando c’è in gioco la vita di esseri umani in carne e d’ossa, non si inventino trucchi simili per aumentare le prestazioni degli atleti in maniera illecita ma, anzi, si cerchi di fare fronte comune e proporre una politica più ferrea per salvaguardare non solo lo spirito sportivo, ma soprattutto la vita dei giovani atleti.

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